FOCUS
Endometriosi: dall’aetiologia alla terapia
Laganà AS
L’endometriosi può essere definita come una condizione data dalla presenza e crescita estrogeno-dipendente di tessuto endometriale funzionale, ghiandole e stroma, al di fuori della cavità uterina.1 Secondo gli ultimi dati epidemiologici, colpisce dal 2 al 10% delle donne in età riproduttiva, e fino al 50% delle donne infertili.2 I fattori di rischio per tale patologia sono: mestruazioni di durata breve, abbondanti; nulliparità o bassa parità (per la maggiore esposizione alle mestruazioni e insulti ormonali); alterazioni anatomiche delle strutture di origine Mülleriana. Al contrario, tutte le condizioni che provocano diminuzione dei livelli di estrogeni inibiscono lo sviluppo dell’endometriosi.3 Per capire l’eziologia dell’endometriosi è fondamentale chiarire due punti: il primo è come arrivano le cellule endometriali in sede ectopica, il secondo è quale meccanismo ne permette l’impianto e la proliferazione. A tal proposito sono state formulate diverse ipotesi aetiopatogenetiche:4,5 trasporto retrogrado tubarico delle cellule endometriali sfaldate dopo la mestruazione; disseminazione delle cellule endometriali attraverso il drenaggio venoso o linfatico uterino; impianto “iatrogeno” di cellule endometriali dopo esiti di chirurgia pelvica/addominale; derivazione embrionaria degli impianti endometriosici per alterazioni dell’organogenesi delle strutture di origine Mülleriana; azione degli inquinanti ambientali. Qualunque sia la teoria eziopatogenetica verosimilmente corretta, le cellule endometriali presenti in cavità pelvica (sede ectopica) dovrebbero venire attaccate ed eliminate dal sistema immunitario (macrofagi residenti e cellule mononucleate del sangue periferico). Al contrario, nella malattia le cellule endometriali “evadono” la sorveglianza del sistema immunitario e si impiantano e proliferano in cavità pelvica.6-8 Le sedi più frequenti dove si sviluppano le lesioni endometriosiche sono: ovaio, salpinge, cavo del Douglas, legamenti dell’utero, setto retto-vaginale e peritoneo pelvico. Macroscopicamente tali lesioni potranno presentarsi come noduli rossastri, giallo-marroni o bluastri, aree fibrotiche brune o biancastre, lesioni rosse appiattite simili a petecchie, formazioni cistiche di diametro anche notevole (“endometriomi”), aderenze velamentose o tenaci (fino al quadro di “pelvi congelata”). A livello istologico queste cellule appaiono del tutto simili a quelle endometriali, e formano ghiandole a epitelio cilindrico circondate da stroma molto vascolarizzato. Tali cellule rispondono alla stimolazione ciclica degli estrogeni e del progesterone andando incontro a uno sfaldamento emorragico. Sulla base della sede e gravità degli impianti, l’endometriosi viene suddivisa in 4 stadi secondo la classificazione dell’American Society for Reproductive Medicine.9 La malattia può essere asintomatica nel 20-25% dei casi, oppure può manifestarsi con un corteo di stintomi e segni, definito da: dismenorrea (dolore mestruale); algie pelviche intermestruali; dispareunia (dolore durante i rapporti); sterilità/infertilità; dolore pelvico cronico.10,11 La diagnosi di tale patologia inizia da un’accurata anamnesi, cui segue una visita ginecologica (che risulta spesso negativa). Ci si avvale anche del supporto dell’ecografia, utile nella diagnosi di endometriomi e di malattia che infiltra il setto rettovaginale, la vescica o l’uretere. In casi molto selezionati si potranno utilizzare anche altre metodiche, quali la Risonanza Magnetica Nucleare, il clisma opaco, l’ecografia transrettale, il clisma TAC o la cistoscopia. Le indagini sierologiche potranno evidenziare in alcuni casi un rialzo del valore del CA125, anche se bisogna considerare che sono in fase di verifica nuovi marcatori da dosare a livello ematico e urinario.2 Il “gold standard” per la diagnosi è però attualmente rappresentato dalla laparoscopia, da riservare come ultima analisi soprattutto se si prevede di intervenire chirurgicamente.2 Per quanto riguarda la terapia medica ci si avvale di diverse sostanze, quali gli estroprogestinici orali in regime continuativo, il danazolo, gli analoghi del GnRH, il gestrinone, i gestageni e gli antagonisti del progesterone, che complessivamente mirano a sopprimere la secrezione di GnRH e gonadotropine (FSH e LH), ridurre i livelli di estrogeni e progesterone e quindi ridurre la crescita degli impianti.12 La terapia chirurgica attualmente è principalmente laparoscopica, per il ridotto rischio di emorragia nel corso dell’intervento, la minore incidenza di aderenze post-operatorie, la riduzione della degenza e della convalescenza e il minimo danno estetico.13 Una delle nuove prospettive della chirurgia mini-invasiva è rappresentata altresì dalla chirurgia robotica. Qualunque sia la tecnica chirurgica utilizzata, è fondamentale l’eradicazione di tutto il tessuto patologico, l’elettrocoagulazione dei focolai peritoneali e, per quanto possibile, il ripristino della normale anatomia e la preservazione del parenchima ovarico indenne.
A cura di:
Laganà AS
Unità di Ginecologia ed Ostetricia,
Dipartimento di Patologia Umana dell’Adulto e dell’Età Evolutiva “G. Barresi”,
Università di Messina
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