On Medicine

Anno XVIII, Numero 3 - settembre 2024

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INTERVISTA

Intervista a Carlotta Casiraghi

Redazione On Medicine

Nell’ambito della formazione e aggiornamento del medico, la partecipazione a congressi nazionali e internazionali gioca un ruolo chiave, oltre che per accedere alle evidenze relative ai più recenti progressi della scienza, anche per condividere la propria esperienza personale e professionale con colleghi provenienti da realtà profondamente diverse da quella in cui si opera. Ci trasmette una testimonianza al riguardo la dottoressa Carlotta Casiraghi, specializzanda in Fisiatria, che ha partecipato lo scorso mese di giugno al 18° congresso mondiale della International Society of Physical and Rehabilitation Medicine (ISPRM), tenutosi a Sidney.


Dottoressa Casiraghi, che effetto le ha fatto partecipare per la prima volta a un congresso mondiale?


È stata un’esperienza fondamentale, sia professionalmente sia umanamente. Da un punto di vista didattico, ho incontrato professori di varie nazionalità molto disposti alla collaborazione e alla didattica che hanno avuto un atteggiamento di grande apertura alla spiegazione e al confronto, con attività finalizzate all’attività formativa di tanti specializzandi provenienti dall'estero. Sono stata invitata più volte a partecipare a internati in giro per il mondo.


Come ha avuto accesso all’evento? È stata invitata a partecipare o ha provveduto autonomamente all’iscrizione?


Mi sono organizzata da sola, sostenendo in prima persona tutte le spese relative all’iscrizione e alla logistica. L’ho potuto fare perché svolgo un secondo lavoro, altrimenti non me lo sarei potuta permettere. La mia attività principale consiste nel frequentare la scuola di specializzazione presso l'Università degli Studi di Milano, e, contemporaneamente, lavoro presso un’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale come guardia medica.


Come ha fatto fruttare la sua partecipazione al Congresso?


Seguivo conferenze e sessioni e, se mi interessavano particolarmente, andavo a parlarne con i relatori, provenienti da tutto il mondo. Si sono mostrati tutti molto disponibili, desiderosi di condividere la loro esperienza e le loro conoscenze. Soprattutto, erano tutti molto curiosi di sapere come la Riabilitazione sia applicata in Italia o, in generale, nel mondo. Penso che sia stato questo il risultato più interessante: non solo permettermi di mettere alla prova il mio inglese scientifico, ma anche soddisfare il desiderio di ampliare orizzonti e conoscenze in merito alla mia specializzazione. È relativamente facile, per un professionista, farsi un'idea di cos'è la fisiatria in Italia; la riabilitazione, però, cambia a seconda dei sistemi sanitari esistenti nei diversi Paesi. Cambia anche a seconda delle prospettive e delle aspettative del singolo paziente, perché è una specializzazione che richiede molta umanità.


Intende dire che il Sistema determina la possibilità di esprimere al meglio le proprie qualità non solo mediche, ma anche umane?


Sì; le aspettative di ritornare a una vita quanto più autonoma possibile sono diverse per ogni paziente e questo cambia non solo in funzione dell’individuo, ma anche in funzione del Paese in cui vive. Purtroppo oggi, in Italia, si sente molto l’effetto della continua restrizione di risorse alla Sanità Pubblica. Quindi ogni giorno ci vediamo sempre più costretti a rinunciare a prestazioni importanti per i pazienti, con sempre minor possibilità di offrire una cura ottimale al paziente. Siamo in pochi, abbiamo poco personale, pochi mezzi e ci troviamo a dover completare il doppio del lavoro. Ci rendiamo sempre più conto che è richiesto davvero troppo ai nostri medici per un compenso che non è assolutamente adeguato. Quella della retribuzione è sicuramente è una delle grosse differenze rispetto agli altri Paesi.

Ma al Congresso ho avuto anche la possibilità di verificare che il nostro Sistema Sanitario Nazionale garantisce comunque delle cure più prolungate rispetto ad altri Paesi che, per esempio, non hanno l'assistenza pubblica: un nostro paziente che ha la necessità di un ricovero prolungato, come nel caso di importanti esiti di un trauma cranico, può rimanere in reparto anche sei mesi, mentre in molti altri Paesi potrebbe rimanerci per pochi giorni.


Al di là dell’aspetto prettamente scientifico del Congresso, cosa le è rimasto?


Sicuramente un dettaglio che mi ha colpito particolarmente, anche se può sembrare di scarsa rilevanza, è stata l’organizzazione degli eventi sociali. Ho partecipato a una cena di congressisti e l'ambiente è stato molto coinvolgente, ha veramente rafforzato quello di cui vi è bisogno: una cooperazione internazionale. Quello che davvero più mi ha colpito è stato il desiderio di molti professori, di molti Paesi diversi, di spiegare e di formare delle nuove menti. E, da un punto di vista umano, ho notato grande umiltà anche tra i Professori più preparati.


Consiglierebbe ai suoi colleghi specializzandi di investire in un’esperienza analoga?


Sì, assolutamente. Mi rendo conto che si tratta di un investimento importante, ma dal punto di vista professionale e umano è davvero una pietra miliare. Penso sia fondamentale partecipare ad almeno un'esperienza internazionale. Non solo per ampliare il proprio bagaglio di conoscenze mediche, ma anche perché è un ottimo banco di prova per la nostra comunicazione in inglese. Conoscere la lingua, infatti, è vitale non solo per poter comunicare con i pazienti stranieri, che sono molti, ma anche perché tutta la formazione e l'aggiornamento sono in inglese, a cominciare dalla letteratura. Ci tengo a precisare che l'Università degli studi di Milano paga la partecipazione a un congresso se si presenta uno studio, che, per esempio, ho portato ad altri congressi nazionali; mi auguro che questo venga garantito anche ad altri colleghi di altre specializzazioni, in modo da agevolare un’esperienza che considero davvero degna di essere vissuta almeno una volta.