On Medicine

Anno XVI, Numero 2 - giugno 2022

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IL PARERE DELLO SPECIALISTA

La complessità gestionale della fragilità nella Sclerosi Multipla

C. Zuliani

Definizione e significato di “fragilità”


Negli ultimi anni il concetto di fragilità è stato oggetto di crescente interesse in ambito medico e psico-sociale. Non è stato ancora raggiunto un pieno accordo circa una sua precisa definizione e i criteri più corretti per identificarla; vi è però accordo nel ritenerla “uno stato biologico di vulnerabilità che comporta una scarso recupero dell’omeostasi dopo un evento stressante, ed è una conseguenza del declino cumulativo in molti sistemi fisiologici nel corso della vita” (1). Entrando più nel dettaglio, due sono essenzialmente i paradigmi che definiscono la fragilità:

  1. il paradigma bio-psico-sociale, ove la fragilità viene definita come “uno stato dinamico che colpisce un individuo che sperimenta perdite in uno o più domini funzionali (fisico, psichico, sociale), causate dall’influenza di più variabili che aumentano il rischio di risultati avversi per la salute” (2);
  2. il paradigma biomedico, che la definisce come “una sindrome fisiologica caratterizzata dalla riduzione delle riserve funzionali e dalla diminuita resistenza agli “stressors”, risultante dal declino cumulativo di sistemi fisiologici multipli, e che determina nell’individuo un’aumentata vulnerabilità allo sviluppo di comorbidità, disabilità, un maggior rischio di istituzionalizzazione e mortalità (3).

La fragilità può quindi essere fisica, psicologica, sociale, o una combinazione delle tre componenti, ed è una condizione dinamica che può migliorare o peggiorare nel tempo. I termini comorbidità, fragilità e disabilità sono stati usati spesso in modo quasi intercambiabile per definire in particolare gli anziani vulnerabili, dal momento che presentano zone di sovrapposizione e interrelazioni complesse: “…la fragilità è distinta, ma sovrapposta, sia alla comorbidità che alla disabilità. Inoltre, sia la fragilità che la comorbidità predicono la disabilità, adattandosi a vicenda; la disabilità può benissimo esacerbare la fragilità e la comorbidità e le malattie concomitanti possono contribuire, almeno in modo additivo, allo sviluppo della fragilità…” (4). L’introduzione nella pratica clinica del concetto di fragilità ha avuto il merito di contribuire a spostare l’approccio al paziente da un’ottica centrata sulla malattia o sull’organo a una visione più integrata e globale della salute e dei suoi diversi aspetti. Questo cambiamento di visione ha poi favorito la messa in atto di interventi su misura focalizzati a preservare l'indipendenza, la funzione fisica e lo stato cognitivo di un individuo ritenuto fragile, per garantirne una maggior sopravvivenza in assenza di disabilità, e migliorarne così la qualità di vita (QoL) (5). In medicina geriatrica in particolare, ma in modo crescente anche in altre discipline mediche, il concetto di fragilità inizia a essere adottato per riflettere le differenze nella suscettibilità agli esiti avversi. Per consentire ai clinici di riconoscere oggettivamente e precocemente le persone fragili sono stati sviluppati e validati diversi test di screening e scale di valutazione, fra cui la versione italiana recentemente validata del “Frailty Index” che, attraverso la valutazione di una serie di item, esplora specifici aspetti di quattro domini di fragilità:

  1. fragilità fisica: mobilità, forza muscolare, comorbidità;
  2. fragilità mentale: deficit cognitivo, tono dell’umore;
  3. fragilità nutrizionale: indici antropometrici, mini nutritional assessment;
  4. fragilità sociale: supporto sociale (6).

In sintesi, il prototipo del soggetto fragile è una persona “vulnerabile”, per lo più anziana, affetta da patologie croniche complesse e instabilità clinica; presenta comorbidità che richiedono una politerapia, a volte una disabilità funzionale con una ridotta autosufficienza e, spesso, sovrapposte problematiche sociali e familiari che ne rendono ancor più difficile la gestione.


La fragilità nella persona con Sclerosi Multipla


La Sclerosi Multipla (SM) è una malattia infiammatoria demielinizzante e neurodegenerativa del Sistema Nervoso Centrale (SNC), a patogenesi disimmune e a eziologia ancora non del tutto conosciuta, ma verosimilmente causata dall’interazione di fattori ambientali, genetici ed epigenetici (7). È una malattia cronica che può determinare in circa il 15-50% dei casi, dopo una durata media di malattia di 15 anni, un accumulo progressivo di disabilità e dipendenza, con importanti ricadute in ambito funzionale, emotivo e sociale, e con impatto negativo sulla QoL (8); la sua gestione è inoltre caratterizzata dal paradigma della complessità, tutti aspetti per i quali la “fragilità” dovrebbe essere un elemento distintivo. È lecito, però, porsi il quesito se tutte le persone con SM vadano considerate tout court come “soggetti fragili” per uno stato di fragilità legata alla malattia o se, nell’estrema eterogeneità della malattia in termini di esordio (età, sintomi e modalità), evoluzione (fenotipo clinico, frequenza di ricadute e tasso di progressione), risposta terapeutica e fattori prognostici, questa definizione si adatti solo a specifici sottogruppi di pazienti, e quali siano gli elementi che permettono di definire in modo più preciso i soggetti da considerare fragili.

La fragilità è stata scarsamente studiata in modo specifico nel contesto della SM, e i dati della letteratura scientifica a disposizione sono molto scarsi. Un recente studio trasversale italiano su 745 pazienti con SM con età media di 48,2±11,7 anni ha documentato come la presenza di “fragilità”, determinata e quantificata attraverso la scala multidimensionale (Frailty Index), fosse associata a durata di malattia, grado di disabilità misurato con l’Expanded Disability Status Scale - EDSS (9), presenza del sintomo fatica, numero di trattamenti modificanti il decorso della malattia (Disease Modifying Therapy - DMT) utilizzati e fenotipo di malattia secondario-progressivo (SM-SP) (10). Un altro studio trasversale monocentrico franco-canadese si è focalizzato invece solo su soggetti con SM più anziani, e ha confrontato 80 soggetti con SM di età superiore a 50 anni, punteggio all’EDSS minore di 7 e liberi da ricadute di malattia da almeno 6 mesi con 37 controlli sani sovrapponibili per età, per verificare quali fossero le caratteristiche cliniche di malattia che correlassero con uno stato di fragilità, oggettivato da scale validate. Innanzi tutto, le persone con SM hanno raggiunto un indice di fragilità significativamente maggiore rispetto ai controlli. Attraverso un’analisi multivariata è emerso poi come il grado di fragilità correlasse con la durata di malattia, il grado di disabilità all’EDSS e la presenza di comorbidità (11). Questi dati vanno delineando, quindi, una specifica tipologia di paziente SM che l’età, la durata di malattia e il grado di disabilità, un fenotipo di malattia prevalentemente di tipo progressivo, la presenza di comorbidità con il conseguente utilizzo di una politerapia, il trattamento sequenziale di più DMT rendono fragile. Cercheremo quindi di analizzare in modo approfondito come questi indicatori di fragilità interagiscano vicendevolmente e concorrano a determinare problematiche specifiche nella gestione dei pazienti.

Determinanti di fragilità e loro impatto nella gestione della persona con SM :


Età

La SM esordisce abitualmente nella fascia di età fra i 20 ed i 40 anni, ma in percentuali variabili dal 4 allo 9,4%, a seconda delle casistiche, si può manifestare dopo i 50 anni, venendo definita in tali casi SM a esordio tardivo (Late Onset Multiple Sclerosis - LOMS) (12). A prescindere dalla LOMS, negli ultimi anni si è verificato uno spostamento del picco di prevalenza della malattia verso un’età più avanzata, con un trend in progressiva crescita. Questo fenomeno dipende sicuramente anche dalla disponibilità di trattamenti DMT ad alta efficacia e alla migliore gestione dei pazienti, che hanno attualmente un’aspettativa di vita sovrapponibile a quella della popolazione generale. Come abbiamo già sottolineato, l’età è il fattore più importante nel rendere la persona con SM fragile; innanzi tutto, un esordio tardivo si associa fortemente a una prognosi sfavorevole nel predire la progressione della disabilità nel tempo, indipendentemente dal decorso iniziale della malattia, con il raggiungimento di milestones di disabilità in tempi più rapidi rispetto ai più giovani; come già riportato, inoltre, anche la disabilità è considerata essere fra i maggiori drivers di fragilità. L’invecchiamento, a prescindere dall’età di esordio della malattia, determina poi nella SM una forte diminuzione della capacità di rimielinizzazione delle lesioni, una diminuzione della naturale capacità di compenso e della riserva cerebrale e un deficit della plasticità sinaptica che esitano nel progressivo accumulo di danni cerebrali strutturali e in una modificazione del fenotipo di malattia da prevalentemente infiammatorio a neurodegenerativo (13). Un ulteriore fenomeno associato al processo di invecchiamento è l’instaurarsi di un persistente quadro di infiammazione sistemica di basso grado, definita “inflammaging”, che attraverso una serie di eventi biologici che coinvolgono tutto l’organismo, può nella SM contribuire ad amplificare i processi di demielinizzazione, sinaptopatia e neurodegenerazione (14).

Anche il sistema immunitario è sottoposto, con il progredire dell’età, a un processo fisiologico di invecchiamento, noto con il termine di “immunosenescenza”, e nelle persone con SM tale processo si avvia precocemente. L’immunosenescenza induce modificazioni disfunzionali nei compartimenti innato e adattativo del sistema immunitario, con il risultato finale di favorire una maggiore suscettibilità alle infezioni, una minore risposta ai vaccini e un maggior rischio di sviluppare patologie croniche, autoimmuni, neoplastiche e neurodegenerative. Nella SM l’immunosenescenza potrebbe essere almeno in parte responsabile della transizione verso un fenotipo di malattia prevalentemente neurodegenerativo-progressivo, favorire alcune comorbidità, modificare il bilancio rischio/beneficio dei DMT e, quindi, da ultimo contribuire a rendere i pazienti fragili e a complicare ulteriormente la loro gestione (15).

Comorbidità

Il termine “comorbidità” viene utilizzato per indicare il fenomeno della compresenza di patologie diverse in uno stesso individuo o, più precisamente, il fenomeno per cui un paziente (per lo più anziano) che è in cura per una patologia (generalmente cronica) presenta anche un’altra o più malattie non direttamente causate dalla prima, ma che ne condizionano la terapia e gli esiti. Il rischio di comorbidità è sicuramente età-dipendente, in particolare per quanto riguarda patologie oncologiche e patologie croniche come quelle metaboliche, cardio- e cerebrovascolari. I dati riguardanti l’associazione fra SM e patologie oncologiche sono contrastanti; va ricordato però che alcuni DMT, per azione mutagena o per una riduzione dell’immunosorveglianza, possono aumentare il rischio di malignità. Altre comorbidità quali patologie autoimmuni, disturbi psichiatrici come ansia e depressione, patologie cerebro- e cardiovascolari come ipertensione arteriosa, infarto del miocardio e ictus, patologie dismetaboliche quali dislipidemia e diabete sono invece sovrarappresentate rispetto alla popolazione generale. Queste comorbidità hanno una grande rilevanza, perché possono avere un impatto negativo sulla tempestività della diagnosi, contribuire a peggiorare la QoL dei pazienti, indurre un maggior utilizzo dei servizi sanitari, e si associano a un decorso più grave di malattia in termini di accumulo di disabilità neurologica a lungo termine, di complicanze mediche come infezioni, ospedalizzazione e, da ultimo, mortalità (16). Le comorbidità possono anche avere un’influenza sul trattamento della SM: possono infatti condizionare la decisione di iniziare un trattamento e la scelta del farmaco da utilizzare, se ad esempio l’accesso o la prosecuzione di determinati trattamenti sono limitati dalla presenza di patologie che rappresentano delle controindicazioni. La presenza di comorbidità può infine influenzare l’aderenza e persistenza ai trattamenti, la loro efficacia, sicurezza e tollerabilità, e aumentare il rischio di interazioni farmaco-farmaco e farmaco-malattia (17). In altre parole, le comorbidità, in particolare età-correlate, concorrono nel rendere la persona con SM più fragile.

Politerapia

Il termine politerapia viene utilizzato per definire l’uso quotidiano di cinque o più farmaci diversi; la prevalenza di persone che assumono una politerapia aumenta in modo progressivo con l’età, contestualmente al rischio di sviluppare patologie croniche multiple. Sebbene i rapporti rischio-beneficio dei singoli farmaci siano ben noti, le possibili interazioni in caso di una politerapia rendono la gestione più complessa, contribuendo a un aumento del rischio di reazioni avverse, ospedalizzazione e mortalità. Le persone con SM, in particolare nella fascia di età più avanzata, sono maggiormente esposte all’assunzione di una politerapia rispetto alla popolazione generale a causa della varietà di farmaci utilizzati per trattare i molteplici sintomi della malattia, oltre che per eventuali altre comorbidità. Si stima che tra il 15 e il 65% dei pazienti con SM assuma una politerapia, che si associa a un aumentato rischio di ospedalizzazione, di disabilità, di deterioramento delle funzioni cognitive e ha un impatto negativo sulla QoL (18).

I trattamenti modificanti la malattia (DMT): problematiche gestionali specifiche nel paziente SM fragile


A oggi non è ancora disponibile una cura definitiva per la SM, ma negli ultimi anni la prognosi nel lungo termine dei pazienti con le forme recidivanti è migliorata in modo significativo grazie alle maggiori conoscenze degli aspetti immunopatogenetici della malattia e al progressivo sviluppo di farmaci con meccanismi d’azione diversi, da qualche anno disponibili anche per le forme progressive. Lo scenario terapeutico è quindi radicalmente cambiato, e attualmente sono approvati dagli enti regolatori e prescrivibili più di 15 DMT, differenti per profilo di efficacia, via e frequenza di somministrazione, tollerabilità e probabilità di aderenza al trattamento, effetti avversi più comuni, rischio di tossicità maggiore e rischi correlati alla gravidanza. La crescita delle opzioni terapeutiche disponibili ha reso così possibile delineare dei percorsi di trattamento “personalizzati” (19), con l'obiettivo di avere il miglior controllo possibile della malattia, misurato attraverso parametri clinici (soprattutto recidive e disabilità) e neuroradiologici (segni di attività in Risonanza Magnetica Nucleare) e la migliore QoL possibile per il paziente.

Questo obiettivo può essere perseguito con una strategia terapeutica caratterizzata da un approccio cosiddetto di “escalation”, che prevede l’inizio con un farmaco meno potente ma con miglior profilo di sicurezza, e il successivo passaggio, in caso di risposta inefficace a una terapia più potente; oppure, da un approccio più deciso, che prevede l’inizio precoce con un DMT ad alta efficacia ma con qualche criticità maggiore per quanto riguarda il profilo di sicurezza. Un terzo approccio, meno comune, è quello di “induction”, che contempla l’utilizzo dei cosiddetti farmaci di immunoricostituzione, cioè l’uso limitato nel tempo di farmaci o di trattamenti con drastico effetto linfopenizzante in grado di determinare un reset della risposta immunitaria alterata. I dati della letteratura più recenti sono concordi nell’indicare che un intervento precoce ed efficace sia la strategia migliore per ritardare il danno neurologico irreversibile e la conseguente progressione della disabilità fisica e cognitiva (20), per cui nella pratica clinica si è assistito a uno spostamento nell’utilizzo dei trattamenti ad alta efficacia già all’esordio nella malattia, rispetto all’applicazione di strategie di escalation. I fattori che giocano un ruolo nel guidare la scelta del trattamento sono molti; la presenza dei fattori che abbiamo visto rendere i soggetti più fragili, come l’età avanzata, la presenza di comorbidità, una lunga durata di malattia, la presenza di disabilità, il precedente utilizzo sequenziale di più farmaci con effetto cumulativo su un sistema immunitario senescente potrebbero essere rilevanti nel modificare il rapporto rischio/beneficio dei diversi DMT, verso un minor profilo di efficacia a fronte di rischi maggiori, in particolare di tipo infettivologico e oncologico. È quindi ragionevole domandarsi se in questi pazienti le strategie terapeutiche debbano subire un adattamento (e quale), o se comunque debbano modificarsi alcuni aspetti gestionali.

Purtroppo, nonostante l'età media della popolazione SM abbia un trend in progressivo aumento, le nostre conoscenze sull’utilizzo dei DMT in questa popolazione di soggetti più fragili sono parziali, dal momento che nella maggior parte dei trials clinici registrativi vengono esclusi sistematicamente i soggetti con età maggiore di 50-55 anni e/o con comorbidità rilevanti. Vi è quindi una notevole discrepanza tra i pazienti arruolati negli studi rispetto a quelli che il neurologo si trova a gestire in contesti reali, dove si sovrappongono altre fragilità età-correlate; nonostante ciò, questi soggetti si trovano a essere trattati secondo linee guida dove in realtà non sono rappresentati. Un primo aspetto da analizzare è, come già accennato, se il profilo di efficacia dei DMT subisca delle modificazioni nel paziente SM fragile. Una recente metanalisi di 38 trials clinici ha analizzato l’efficacia sulla progressione della disabilità di 13 diversi DMT in una popolazione di 28.000 soggetti, e ha messo in evidenza come i trattamenti ad alta efficacia manifestino la propria superiorità rispetto ai DMT con profilo di efficacia minore sotto i 40 anni di età, mentre perdano il loro potenziale terapeutico maggiore mediamente dopo i 53 anni. Gli Autori sono giunti alle conclusioni che l'età è un modificatore essenziale del profilo di efficacia dei farmaci sulla progressione della disabilità (21), per cui sarebbe a loro avviso ipotizzabile anche una loro sospensione una volta raggiunta un’età più avanzata. Risultati analoghi sono emersi da un altro studio, che ha eseguito un’analisi di sottogruppi di trials clinici, e ha messo in luce come l’efficacia dei DMT si riduca dopo i 40 anni (22). Parallelamente alla riduzione dei benefici dei DMT in termini di efficacia con l’avanzare dell’età, della durata di malattia, del passaggio da un fenotipo di malattia da recidivante a progressivo, è lecito domandarsi se questi determinanti di fragilità possano essere rilevanti anche nel modificare il profilo di sicurezza dei trattamenti, esponendo a un maggior rischio di eventi avversi, e quali possano essere le strategie terapeutiche più indicate da mettere in campo.

Abbiamo già sottolineato come l’immunosenescenza, attraverso una disfunzione della risposta immunitaria adattativa e innata, determini una maggiore suscettibilità alle infezioni microbiche (batteriche, virali e fungine) e con un peggior outcome, una ridotta risposta anticorpale a nuovi antigeni e vaccini, e verosimilmente anche un maggior rischio di sviluppare patologie oncologiche. Le persone con SM presentano di per sé un quadro di immunosenescenza precoce il cui effetto viene poi amplificato da tutte le determinanti di fragilità che abbiamo già enumerato. L’insieme di questi fattori potrebbe rendere maggiori i rischi di eventi avversi associati all’utilizzo dei DMT, in particolare di quelli ad alta efficacia e con maggior impatto sul sistema immunitario. I dati della letteratura al riguardo sono scarsi e con risultati discordanti; Autori che hanno valutato attraverso una meta-regressione di 45 studi clinici se specifici eventi avversi fossero correlabili all’età in base al meccanismo di azione delle diverse classi di DMT (immunomodulante, sequestrante o depletivo) hanno evidenziato come l’utilizzo dei farmaci depletivi le cellule B aumenti l’incidenza di neoplasie dopo i 45 anni di età, senza invece esporre a un maggior rischio infettivo (23). Al contrario, altri Autori hanno documentato come il fattore età sia determinante nell’incrementare il rischio infettivo dei DMT ad alta efficacia (24). Risultati analoghi emergono dall’analisi di sottogruppi di pazienti trattati con specifici DMT. In particolare, in uno studio di coorte su 238 pazienti che avevano sviluppato la leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML), grave complicanza da infezione del virus JC secondaria all’utilizzo di natalizumab, un’età maggiore di 50 anni è risultato essere un fattore fortemente associato a un esordio più precoce di tale complicanza, gravata inoltre da un maggior rischio di mortalità (25). In modo analogo, altre complicanze infettive come la meningite criptococcica in corso di trattamento con fingolimod e le infezioni erpetiche in corso di trattamento con DMT ad alta efficacia in generale sono state segnalate con maggior frequenza nei pazienti più anziani. Da ultimo, un aumento del rischio infettivo con l'età può essere indotto da effetti legati al trattamento prolungato di specifici DMT, come l’ipogammaglobulinemia con farmaci depletivi le cellule B e la linfocitopenia persistente con modulatori del recettore della sfingosina-1-fosfato (S1PR) (26).

Alcune comorbidità età-correlate con la necessaria politerapia possono complicare ulteriormente l’approccio terapeutico del paziente SM già fragile, modificando sfavorevolmente il rapporto rischio/beneficio dei DMT o influenzando la scelta del DMT o la prosecuzione di un trattamento già in corso se controindicato o per le possibili interazioni farmacologiche. Quanto detto sinora fa sorgere il dubbio se sia utile e sicuro proseguire il trattamento DMT con l’avanzare dell’età e dello stato di fragilità e quali approcci possano eventualmente essere utilizzati. Accanto alle tre strategie terapeutiche già descritte in precedenza (trattamento precoce con farmaci ad alta efficacia, strategia di escalation e strategia di induction), per particolari situazioni o tipologie di pazienti si va affacciando l’ipotesi dell’interruzione del trattamento o di una strategia di “de-escalation”. La strategia di de-escalation consiste nel passaggio a un intervallo di somministrazione prolungato o in una dose ridotta del DMT utilizzato, oppure nello switch a un DMT meno potente ma con profilo di sicurezza migliore, permettendo così di adottare una terapia sartoriale in base all’attività di malattia e ai rischi associati al trattamento nel singolo paziente (27). In caso di persistenza di stabilità clinica e neuroradiologica, l’opzione successiva dopo la de-escalation, da discutere e condividere con il paziente, potrebbe essere poi la sospensione definitiva del trattamento. Non è però ancora ben chiaro quali siano i criteri clinici e temporali più appropriati per mettere in atto queste strategie, dal momento che non esistono ancora Linee Guida che abbiano affrontato questi argomenti così rilevanti con focus specifico sui pazienti più anziani e fragili, e i pochi dati a disposizione derivano per lo più da studi osservazionali retrospettivi su coorti di pazienti di limitata numerosità e con conclusioni contrastanti. Un caveat importante è costituito dal rischio di potenziale riattivazione o rebound dell’attività di malattia dopo sospensione o de-escalation dei DMT, in particolare di quelli ad alta efficacia appartenenti alla categoria dei farmaci sequestranti (ad esempio S1PR e natalizumab). I dati a disposizione dimostrano come la sospensione dei DMT in età più avanzata renda meno probabile una riattivazione della malattia rispetto a quanto avvenga nelle fasce di età più giovani.

Uno studio prospettico con dati ottenuti dal Global MS Database su pazienti in trattamento con DMT immunomodulanti iniettivi ed esenti da ricadute da almeno 5 anni ha messo in luce che mentre i tassi di recidiva rimanevano stabili dopo l'interruzione, gli aspetti di progressione della malattia subivano un’accelerazione, senza però una stratificazione in base alle caratteristiche cliniche dei pazienti, in particolare età, durata di malattia e grado di disabilità (28). Uno studio che ha analizzato l’effetto dell’interruzione dei DMT e l’identificazione dei fattori predittivi a supporto del processo decisionale in una casistica di 221 pazienti con SM ha messo in luce come il sottogruppo di età maggiore di 45 anni e senza evidenza di attività clinica o radiologica della malattia da oltre 4 anni avesse un'alta probabilità di rimanere libero da recidive dopo l'interruzione del trattamento (29). Risultati analoghi sono emersi da uno studio osservazionale retrospettivo che ha coinvolto 600 soggetti con SM di età maggiore di 60 anni e in trattamento DMT da oltre 2 anni, dove è emerso come l’interruzione del trattamento non abbia determinato per la maggior parte di essi una riattivazione della malattia tale da renderne necessaria la ripresa (30). Infine, un recente studio che ha stratificato per età il rischio di riattivazione di malattia in una popolazione di 128 soggetti che avevano sospeso il fingolimod ha messo in luce come si riducesse significativamente con l’età (rischio di riattivazione di circa il 36,5% al di sotto dei 50 anni vs il 19% fra i 50 e 60 ani e, addirittura, lo 0% dopo i 60 anni) (31). Non è dato però sapere se questi dati riflettano anche la progressiva riduzione degli aspetti infiammatori della malattia che si verificano di per sé con l’invecchiamento. Sembra comunque che il fattore età, che incorpora poi il più delle volte gli altri determinanti di fragilità, sia un aspetto determinante a favore, in presenza di stabilità prolungata clinica, in termini di ricadute di malattia e progressione di disabilità, e neuroradiologica, a favore di una de-escalation o sospensione dei DMT.

Conclusioni


Pur nell’ambito dell’estrema variabilità interindividuale della malattia, possono essere considerati “fragili” i soggetti di età più avanzata, con una maggior durata di malattia e grado di disabilità, la presenza di comorbidità e l’assunzione di una politerapia. Questi determinanti di fragilità, singolarmente o attraverso una vicendevole interazione, concorrono a determinare problematiche specifiche e un più elevato livello di complessità gestionale. La SM si modifica con l’età dal punto di vista patogenetico, con una riduzione progressiva degli aspetti infiammatori e una transizione verso prevalenti aspetti di neurodegenerazione. Per effetto dell’immunosenescenza si verificano, inoltre, importanti modificazioni disfunzionali qualitative e quantitative nei compartimenti dell’immunità adattativa e innata, con implicazioni specifiche nella gestione della malattia e dei DMT. È quindi ragionevole teorizzare che nei soggetti più anziani e gravati da altre fragilità, come comorbidità e politerapie, i DMT agiscano in modo diverso, con uno spostamento verso una riduzione del loro profilo di efficacia a fronte di un maggior rischio di complicanze ed eventi avversi. I dati a disposizione sono limitati, dal momento che i pazienti con queste aree di fragilità sono marginalmente rappresentati negli studi registrativi dei DMT e non esistono Linee Guida specifiche che possano guidare le strategie terapeutiche più adeguate da utilizzare nella pratica clinica. In presenza di una malattia stabile dal punto di vista clinico e neuroradiologico si potrebbe contemplare una strategia di de-escalation dei DMT ad alta efficacia seguita, in assenza di riattivazione di malattia e/o progressione di disabilità, da una sospensione definitiva di qualsiasi trattamento, continuando comunque a mantenere un costante e attento monitoraggio. Nella SM la fragilità è una condizione multifattoriale e dinamica; la sua valutazione routinaria nella pratica clinica, con strumenti oggettivi e validati ad hoc, può diventare uno strumento per pianificare un’adeguata gestione multidisciplinare nel lungo termine e rappresentare un valore aggiunto rispetto alla sola valutazione centrata sulla malattia. La sua individuazione precoce come marker multidimensionale di vulnerabilità può aiutare nel riconoscere i soggetti a rischio di future complicanze. In questo modo, all’interno della relazione di cura paziente e professionista potranno, attraverso un processo decisionale consapevole e condiviso, dare valore alla prevenzione dei fattori modificabili che possono peggiorare lo stato di fragilità, e utilizzare in modo più sicuro ed efficace le terapie a disposizione. Sarà infine di fondamentale importanza disegnare studi clinici con un focus specifico sulle persone con SM fragili per ottimizzare la gestione della loro malattia e migliorare la loro QoL.

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Cristina Zuliani
Ambulatorio Sclerosi Multipla, Mirano (Ve)